la mia cosa felice che cade

di mio padre

sono rimasti armadi pieni di vestiti. Ci somigliamo ma lui era un uomo, i suoi abiti non mi stanno bene, ho tenuto per me due borse e due giacche nel cui abbraccio mi infilo. Nella tasca di una borsa ho trovato questa fiche, che mi fa ridere per mille motivi.

Se fosse lì più come ricordo o più come portafortuna non lo so, certo a ripensarlo non era un uomo scaramantico né si affidava a santini.

Non so se si può dire sia stato un uomo fortunato, considerando che si è ammalato ed è morto prima di quanto l’aspettativa di vita media in questo periodo storico possa far sperare. Gli accadevano cose buffissime, che si potrebbero far rientrare nel concetto di sfortuna eppure no, non ci stanno, perché non c’era il dramma – sempre eccetto la malattia e la morte, chiaro – c’era il comico, di una comicità che veramente mi manca tantissimo, e che mi rendo conto si era ficcata come un’ancora in un punto del mio cervello -odelcuore- salvandomi in svariate occasioni.

Questa comicità gli accadeva, io credo di aver sempre pensato, per come lui pensava.

Niente fortuna o sfortuna ma una sorta di negazione del dramma, se sembri un dramma ti capovolgo ti ribalto ti traduco cerco un’altra via ti esco da un orecchio. In questo era un maestro vero, nel cavarsela e uscirne, non con goffaggine, ma con cinematografica elegante comicità.

Per questo io non ci credevo alla faccenda della morte, inconsciamente mi aspettavo il colpo di scena, non la fortuna, lì si stava nel dramma, ma il capovolgimento, l’uscita elegante ma non definitiva. Ti pare che uno come lui muore, adesso, così, ma no, non si addice al personaggio. Ma forse gli si addice, ché si sa ‘il comico è il tragico visto di spalle’; e forse la tua morte mi deve somigliare alla felicità che cade? Sei tu il mistero della ‘cosa felice che cade’? Sei tu la mia cosa felice che cade. La mia fiche nella tasca. Da capovolgere. Da lanciare in alto e guardare imitare la morte.

la mia cosa felice che cade

domanda udita in un sogno

Quando mio padre è morto l’ho dovuto dire subito ad alta voce

non a me stessa, non me lo sarei detta mai

alla donna all’ingresso dell’ospedale

Erano giorni che entravo e uscivo indisturbata, nessuno mi chiedeva niente, nonostante l’emergenza covid, entravo, prendevo le scale invece che l’ascensore, salivo fino al quarto piano, facevo 5mila passi nella sala d’attesa, mia mamma si affacciava un minuto alla porta, altri 5mila passi finché il telefono mi conferiva orgoglioso il badge dei 10mila passi giornalieri, tutti in 6×4 metri quadrati, riprendevo le scale e uscivo.

Lunedì invece no, lunedì all’ingresso c’era una donna e mi ha chiesto perché fossi lì.

Un secondo per me

“Mio padre è morto” ho detto

Un momento, è la prima volta che muore mio padre, queste lettere insieme non le ho mai pronunciate, non mi sembra nemmeno la mia lingua, uno strano suono, un codice che mi permetterà di salire al quarto piano, per l’ultima volta

Un secondo per lei

Non se l’aspettava, beh io neanche, ma l’hai chiesto tu, siamo in ospedale, sarà una questione di vita o una questione di morte, un 50 e 50, almeno linguisticamente

“Mi scusi”

Apre le braccia

Non sono molto fisionomista, la sua faccia non la ricordo per nulla, ma ho in mente quelle sue braccia aperte e la sinistra che dopo qualche secondo si apre ancora di più come a dire Prego, può andare, non so se perché fossero le regole a permetterlo – quali fossero e siano le regole in questo tempo di emergenza ancora non mi è chiaro – o la sua indulgenza

Le ultime parole con il mio papà sono state al telefono

Sabato mattina

Io ero ancora lì fuori totalmente inutile in sala d’attesa

“Capito, amore?” Io sorrido

Ho capito non ho capito

Intanto il medico aveva detto il giorno prima che a mio padre restavano 72 ore

come a una pila

io comunque non ci avevo creduto

al momento della telefonata stavamo a 48

nel pomeriggio di sabato si è svegliato, ha chiacchierato, ha mangiato l’agnello

stavamo a 40

Domenica non so nemmeno come è passata, non so cosa ho fatto, non ricordo niente di niente

E intanto stavamo a 24

Avevamo scoperto che si era riammalato l’anno prima, l’anno scorso, in aprile

Eravamo tutti in lockdown, io a casa mia, i miei a casa loro

Un po’ come dell’ultima domenica, di tutti quei giorni in casa non mi ricordo niente

il tempo mi sembrava aver cambiato forma

un solco che continuava a insistere sempre sullo stesso punto

Ti sogno. Anche se sei un personaggio strano

L’altra notte mi hai fatta arrestare perché avevo ucciso un uomo, anche se non mi ricordavo come; il perché non pareva importante

Ma i miei polsi sono più piccoli delle manette, e io scappo

Nelle Poesie di Wilcock c’è questo testo che fa così:

DOMANDA UDITA IN UN SOGNO

Come sarà la morte? Vedere

una tigre di ferro che ti salta addosso

e non credere che ti possa toccare?

domanda udita in un sogno

vengo anch’io no tu no

La prima volta che ho sentito accostare il verbo venire all’orgasmo avevo dodici anni e a mettere in correlazione i due termini fu la catechista Liliana.

Ci stavamo preparando per la cresima e studiavamo delle canzoni da cantare tutti insieme.

Eravamo tutti amici, la maggior parte anche compagni di classe o comunque di scuola.

Si cantava in cerchio, in piedi. Tutti imbarazzati, cantare Siamo andati alla caccia del leon in classe a lezione di musica non era bastato a farci superare l’impaccio di usare la propria voce davanti agli altri.

Matteo stava davanti a me, i capelli neri, il nasetto a punta, non andavamo nella stessa classe ma ci vedevamo al catechismo e in piattaforma, così chiamavamo il parchetto del paese.

Matteo era in pieno sviluppo puberale, il primo tra i ragazzi, e la sua voce da una settimana di catechismo all’altra era diventata quella di un uomo.

Era stonato. Non riusciva a seguire la melodia, ogni frase era restituita alle orecchie come uno strazio monocorde. Cantate da lui le canzoni suonavano tutte come parodie di pezzi metal, come quando si fa la voce roca per imitare il growl dei cantanti.

Non che avessi chissà quale cultura del metal a quella età. Io e la mia amica lilli suonavamo la chitarra, lei meglio di me. Io avevo studiato con un’insegnante simpatica ma pigra, che nonostante fossi mancina me l’aveva insegnata dal verso sbagliato, ossia quello giusto, normale, dei destrorsi, e la mia mano destra non mi ha mai seguito troppo bene. Ero forte negli arpeggi, ma tenere il ritmo di un brano semplice mi risultava più difficoltoso.

La lilli aveva imparato a suonare con suo padre, che era stato un musicista. Lei aveva un invidiabile naturale senso del ritmo e una voce intonata, come la mia, ma la sua era più forte, più corposa, come vino rosso, e cupa.

Passavo da lei tutti i pomeriggi, abitava sopra la nonna Maria, dopo la scuola pranzavo dalla nonna sopportando Beautiful, mangiavo un gelato davanti a Dragon Ball e poi salivo dalla lilli, anche se la nonna insisteva perché aspettassi sempre un altro po’, perché non sta bene andare in casa delle persone alle 14, ché la gente magari dorme.

Lei in effetti si addormentava sulla sedia, e io salivo al piano di sopra.

Con la lilli facevamo sempre i compiti – andavamo nella stessa classe – e poi suonavamo.

Suo padre ci aveva scritto una partitura di Stairway To Heaven, e io conserv(av)o quel foglio come fosse una cosa preziosissima.

Ora si trova tutto su internet, e in realtà volendo anche allora, era il 2000, ma noi usavamo il computer dei nostri genitori solo o comunque soprattutto per fare le ricerche per la scuola.

Abbiamo fatto miliardi di cartine geografiche, la lilli era bravissima a realizzare le cartine.

Stampavamo la cartina al pc, ricalcavamo con la carta da lucido e coloravamo.

Io la guardavo e contribuivo dando un po’ di verde o blu qua e là, ma solo lei aveva lo sguardo complessivo sull’opera, fino a un attimo prima del momento finale la forza con cui calcava il marrone delle zone montuose, tenendo il pastello come vedevo fare solo a lei, tra il medio e l’anulare, mi sembrava poter rovinare tutto, invece alla fine allontanando la vista il risultato era quasi tridimensionale, bellissimo.

Dopo le cartine o gli altri compiti suonavamo. Mia cugina, di qualche anno più grande, mi aveva fatto una compilation che avevo subito portato dalla lilli. Le nostre preferite erano Valvonauta, Acida e Placebo Effect. Le cantavamo fino allo sfinimento. Pure a scuola o in piattaforma, “Mi sento scossa” partiva una, “Agitata-a agitata-a un po’ nervosa-a” rispondeva prontamente l’altra.

Non ci drogavamo, non sapevamo niente di droghe, ci drogavano le infinite possibilità del pensiero, l’immaginazione, nemmeno ci importava che quelle sensazioni in quei testi potessero essere correlate agli effetti di una qualche droga. Ci aprivano la mente a combinazioni per noi nuove e ci piaceva. Eravamo esserini con gli occhi spalancati e mille tentacoli verso tutto. Non sono i testi migliori incontrati poi nella vita, ovviamente, ma servirono a pensare che si può dire tutto, che con la parola puoi fare tutto. Mi sento grande come una città come una città una gigante.

Tra le canzoni per la cresima c’era Vieni, vieni, spirito d’amore, e la voce di Matteo rendeva il ritornello un pezzo hardcore. Lui lo sapeva, e cercava di sussurrare, ma era impossibile, la sua voce adulta copriva tutte le nostre vocette. Non riuscivamo a trattenerci dal ridere, non per prenderlo in giro, ma per l’effetto rovesciato che si creava, quasi da rito esoterico, tutti in cerchio a invocare un amoroso spirito ribadendo in coro una formula monotona e ripetitiva.

Insomma, noi tutti ridiamo e la catechista Liliana a un certo punto stoppa la musica e ci urla indignata:

“Smettete di ridere pensando all’orgasmo!”

Restammo pietrificati, quasi tutte le guance arrossite, qualcuno sprofondò di qualche centimetro nel pavimento.

Avevo sentito la parola orgasmo, ma nemmeno sapevo concretamente cosa fosse, non ne avevo mai provato uno, ma nemmeno niente che gli andasse vicino, solo di lì a pochi mesi avrei provato la rapidissima sensazione di una puntina di lingua in bocca, alla festa di halloween di Francesco, pochi giorni dopo la cresima. Inoltre orgasmo mi pareva una parola sgraziata, dai suoni duri, mi imbarazzava, non il concetto, ma il suono goffo della parola.

Adesso la catechista Liliana mi rubava il verbo venire, e anche un poco di innocenza.

Per anni non l’ho potuto usare nel sesso e mi sono dovuta inventare nuovi formulari da condividere con chi ci si trovava con me, se non volevo ridere troppo o quantomeno se non volevo mi venisse in mente la catechista Liliana.

Ora che sono passati vent’anni il verbo venire è di nuovo libero e si è arricchito di vari amorosi significati – la mamma che per invitarmi a pranzo la domenica mi scrive su whatsapp soltanto Vieni?, accordarsi con un amore lontano per incontrarsi Vengo io? Vieni tu?, aspettare a casa un amore vicino A che ora vieni oggi?, un’amica che nonostante la stanchezza sceglie di farti compagnia Dai, vengo – ma ogni tanto rido ancora.

vengo anch’io no tu no

il problema era la mancanza

il problema era la mancanza

di concentrazione

un’attenzione circoscritta

a dettagli di bizzarra rilevanza

mi nascondeva il totale

potevo fissare per ore il pelo

di un sopracciglio

e non notare l’uomo o la donna

al di sotto dell’occhio

leggere tutti i cartelli in autostrada

fissarmi sulla cantilena creata dai dossi

sulla ripetitività dei segnali di

passaggio e non accorgermi del paesaggio

si creava un quadro preciso agli angoli

sempre confuso nel totale

ad allontanarsi per guardarlo meglio

non si capiva niente

il problema era la mancanza

spixelarsi un po’

questi giorni sono così sovraccarica che quando cerco di fermare un attimo il cervello

invece di rilassarsi lui mi riporta a vent’anni fa

in auto con mia mamma che guidava e mio fratello piccolissimo nel sedile dietro

ascoltavamo sempre De André e Battisti

quando arrivava La canzone del sole la mamma ci diceva che dovevamo cantare la parte finale senza respirare

tutta d’un fiato

Ilsolequandosorgesorgepianoepoilalucesidiffondetuttointornoanoileombreedifantasmidellanottesonoalberiecespugliancorainfioresonogliocchidiunadonnaancorapienidamore

io e mio fratello ci preparavamo riempiendo la bocca d’aria

anche lei ci provava, verso alberiecespugli crollava sempre in una risata

quello è il punto più difficile: lì ti viene di usare tutta l’aria invece devi conservarne ancora un po’, ancorapienidamore

ridevamo tutti, gonfia la bocca e scoppia gonfia la bocca e ridi

io ancora ci riesco. tutto d’un fiato senza respirare

in foto: da I pixel sognano in 8k?, dinosauro che impara da coccodrillo a spixelarsi e non pensare

i pixel sognano in 8k? fulvio risuleo • pièdimosca edizioni
spixelarsi un po’

Ordine e mutilazione su NiedernGasse | Giuseppe Rizza

L’erotismo è una punta di spillo | Giuseppe Rizza su NiedernGasse a proposito di Ordine e mutilazione

Leggendo fin da subito le prime righe quello che ti coglie è una vampata, una sensazione simile a quando stai troppo vicino ad un fuoco, eppure non te ne allontani, non chiedi acqua.

Io non so se l’arte erotica si apprenda o la si possegga, o se la si apprenda sfrondando quella retorica, gettando il già detto e soprattutto il già sentito come zavorre da una mongolfiera per prendere meglio il vento, o se l’arte erotica si impari uccidendo tutti i rischi che comporta – in primis la volgarità e ciò che forse è il suo contrario, l’incapacità di trasmettere sensazioni, di passare attraverso le righe – buttandoli giù da un ponte, ma in Ordine e mutilazione l’erotismo è una nobile arte che si respira fin dalla prima poesia (se vuoi possiamo unirci/ sovrapporci/ combinarci /nelle infinite possibilità grammaticali/), a cui ci si consegna senza l’esercizio di una difesa (succhiarci via tutti i liquidi/ prosciugarci/ e però poi, asciutti, staccarci – io da te, /fino a che non ci sarà da succhiare/ di nuovo).

L’eros che governa la scrittura di Elena Zuccaccia è assenza che si fa carne, uno spettro che appare e riappare, un idolo mutilato (non sono umana/ quando sono con te/ degli animali/ prendo i vizi/) richiamato seguendo echi di Saba (così faccio il cane/ col penoso scodinzolio// da gufo la notte occhi/aperti e non dormo// lumaca ti percorro il/corpo in lungo e in largo) e di Penna (il divano è il trespolo/ di un uccellino/ buono per farci l’amore/da solo, come un/ ragazzino).

L’altra colonna che regge la raccolta dell’autrice è l’uso personale della punteggiatura, che si piega, si presta al verso, in una brezza di due punti (ma non alla Sanguineti) e di trattini che seguono il ritmo come cani da tartufo e che a volte lo plasmano, lo costruiscono letteralmente.
La materia di cui è fatto Ordine e mutilazione è creta che si fa malleare o argilla da spalmarsi addosso per purificare la pelle, una ragazza che si fa ricondurre a casa perché troppo sbronza, un corpo da ricomporre sul divano in un tardo pomeriggio.

Giuseppe Rizza

Ordine e mutilazione su NiedernGasse | Giuseppe Rizza

Ordine e Mutilazione su Mostly Weekly

Oggi su Mostly Weekly #21, la newsletter omonima a margine del canale Telegram, nella rubrica TSUNDOKU POETRY ROOM (in fondo in fondo) Roberto R. Corsi consiglia la lettura di Ordine e mutilazione di Elena Zuccaccia

“La passione come inevitabile fallimento, desiderio di possesso e di eccesso; temi ricorrenti e qui declinati con quieta forza, con uno stile frammentato ma non retorico. Suggestioni di Lacan, Marco Ferreri, Malraux, ma costante e provvida semplicità.”

Ordine e Mutilazione su Mostly Weekly

Ordine e mutilazione | Nota di lettura di Enzo Campi

Nota di lettura di Enzo Campi a Ordine e mutilazione in occasione della performance con musiche di Nicola Cappelletti a Bologna in Lettere 2019

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Elena ZuccacciaOrdine e mutilazione

Musiche Nicola Cappelletti

Il corpo senza organi e la successiva riorganizzazione in un corpo nuovo sono concetti artaudiani, e le due citazioni artaudiane che l’autrice fissa sulla carta non lasciano dubbi in tal senso. Dalla scarnificazione dell’anima allo sconquassamento della carne come per costruire una sorta di linea elettrica lungo la quale far sussultare le parole.

Entriamo nel vivo, senza ulteriori preamboli.

Citiamo testualmente da Ordine e mutilazione:

mi appare chiaro che se

volessimo io e te toccarci

basterebbe ch’io fossi morte

e tu il principio di vita che già sei

(basterebbe quindi, è chiaro, il mio

farmi morte)

perché la fine e il principio, è noto,

sanno toccarsi meglio

d’ogni altra cosa

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Cosa abbiamo qui?

Intanto il “farmi morte” correlato alla dicotomia principio/fine e poi il contatto, o meglio per dirlo con derrida, le toucher, che non è un semplice contatto, non consiste nel toccare ma nel  registro doppio e simultaneo  del toccare/toccarsi da un lato e dell’essere toccato mentre si tocca dall’altro lato.  La struttura è decisamente sovradeterminata. E comunque bisogna tenerne conto.  Perché poi, questo  toccare/toccarsi instaura un sistema comportamentale basato sulla reciprocità. Ma anche la reciprocità viaggia su due binari. C’è un altare e un contraltare. L’idea di un contatto sovradeterminato può  risolversi anche nel desiderio, inconscio o onirico, di mutilare l’altro corpo, ovvero  il corpo da toccare e da cui essere toccati. Ma la mutilazione non può bastare, una volta smembrato l’altro corpo (che è poi anche il proprio stesso corpo – il registro della reciprocità consiste anche in questa inversione e compenetrazione dei corpi), dicevo, una volta smembrato l’altro corpo bisogna mettere in ordine i pezzi, i residui, gli scarti, o meglio bisogna creare un nuovo ordine che possiamo definire anatomico-patologico-esistenziale. È questa una delle possibili accezioni del titolo che l’autrice ha inteso dare alla sua opera. Un’opera che mette al lavoro degli scarti, che produce il desiderio represso della compenetrazione tra gli scarti. Ed è così che in un mirabile divenire molteplice che assembla in sé tutte le filosofie della cura e dell’ospitalità, dell’aver-cura e della predisposizione a rendersi ospitale, a tal punto da smembrarsi per meglio accogliere le parti smembrate dell’altro,  l’autrice nella sezione denominata Mutilazione propone – seppure attraverso l’alibi del sogno – la sua idea  estrema di reciprocità e produce letteralmente un’eccedenza di senso  conferendo un plusvalore al doppio gesto di toccare/toccarsi. In questa inedita, crudele, sublime doppia mutilazione inoltre rinviene anche la dicotomia principio/fine di cui già accennato; e il farmi-morte assume un ulteriore significato nella doppia fine di una doppia morte. Ma è proprio qui che  vive il nuovo principio, ed è proprio a partire da questo che l’autrice inaugura il nuovo ordine delle cose, ri-organizzando un nuovo corpo. Che poi si tratti di un corpo esclusivamente letterario è cosa irrilevante, o – se preferite – fin troppo rilevante, perché poi alla fine stiamo parlando proprio di scrittura. (Enzo Campi)

Ordine e mutilazione | Nota di lettura di Enzo Campi