La prima volta che ho sentito accostare il verbo venire all’orgasmo avevo dodici anni e a mettere in correlazione i due termini fu la catechista Liliana.
Ci stavamo preparando per la cresima e studiavamo delle canzoni da cantare tutti insieme.
Eravamo tutti amici, la maggior parte anche compagni di classe o comunque di scuola.
Si cantava in cerchio, in piedi. Tutti imbarazzati, cantare Siamo andati alla caccia del leon in classe a lezione di musica non era bastato a farci superare l’impaccio di usare la propria voce davanti agli altri.
Matteo stava davanti a me, i capelli neri, il nasetto a punta, non andavamo nella stessa classe ma ci vedevamo al catechismo e in piattaforma, così chiamavamo il parchetto del paese.
Matteo era in pieno sviluppo puberale, il primo tra i ragazzi, e la sua voce da una settimana di catechismo all’altra era diventata quella di un uomo.
Era stonato. Non riusciva a seguire la melodia, ogni frase era restituita alle orecchie come uno strazio monocorde. Cantate da lui le canzoni suonavano tutte come parodie di pezzi metal, come quando si fa la voce roca per imitare il growl dei cantanti.
Non che avessi chissà quale cultura del metal a quella età. Io e la mia amica lilli suonavamo la chitarra, lei meglio di me. Io avevo studiato con un’insegnante simpatica ma pigra, che nonostante fossi mancina me l’aveva insegnata dal verso sbagliato, ossia quello giusto, normale, dei destrorsi, e la mia mano destra non mi ha mai seguito troppo bene. Ero forte negli arpeggi, ma tenere il ritmo di un brano semplice mi risultava più difficoltoso.
La lilli aveva imparato a suonare con suo padre, che era stato un musicista. Lei aveva un invidiabile naturale senso del ritmo e una voce intonata, come la mia, ma la sua era più forte, più corposa, come vino rosso, e cupa.
Passavo da lei tutti i pomeriggi, abitava sopra la nonna Maria, dopo la scuola pranzavo dalla nonna sopportando Beautiful, mangiavo un gelato davanti a Dragon Ball e poi salivo dalla lilli, anche se la nonna insisteva perché aspettassi sempre un altro po’, perché non sta bene andare in casa delle persone alle 14, ché la gente magari dorme.
Lei in effetti si addormentava sulla sedia, e io salivo al piano di sopra.
Con la lilli facevamo sempre i compiti – andavamo nella stessa classe – e poi suonavamo.
Suo padre ci aveva scritto una partitura di Stairway To Heaven, e io conserv(av)o quel foglio come fosse una cosa preziosissima.
Ora si trova tutto su internet, e in realtà volendo anche allora, era il 2000, ma noi usavamo il computer dei nostri genitori solo o comunque soprattutto per fare le ricerche per la scuola.
Abbiamo fatto miliardi di cartine geografiche, la lilli era bravissima a realizzare le cartine.
Stampavamo la cartina al pc, ricalcavamo con la carta da lucido e coloravamo.
Io la guardavo e contribuivo dando un po’ di verde o blu qua e là, ma solo lei aveva lo sguardo complessivo sull’opera, fino a un attimo prima del momento finale la forza con cui calcava il marrone delle zone montuose, tenendo il pastello come vedevo fare solo a lei, tra il medio e l’anulare, mi sembrava poter rovinare tutto, invece alla fine allontanando la vista il risultato era quasi tridimensionale, bellissimo.
Dopo le cartine o gli altri compiti suonavamo. Mia cugina, di qualche anno più grande, mi aveva fatto una compilation che avevo subito portato dalla lilli. Le nostre preferite erano Valvonauta, Acida e Placebo Effect. Le cantavamo fino allo sfinimento. Pure a scuola o in piattaforma, “Mi sento scossa” partiva una, “Agitata-a agitata-a un po’ nervosa-a” rispondeva prontamente l’altra.
Non ci drogavamo, non sapevamo niente di droghe, ci drogavano le infinite possibilità del pensiero, l’immaginazione, nemmeno ci importava che quelle sensazioni in quei testi potessero essere correlate agli effetti di una qualche droga. Ci aprivano la mente a combinazioni per noi nuove e ci piaceva. Eravamo esserini con gli occhi spalancati e mille tentacoli verso tutto. Non sono i testi migliori incontrati poi nella vita, ovviamente, ma servirono a pensare che si può dire tutto, che con la parola puoi fare tutto. Mi sento grande come una città come una città una gigante.
Tra le canzoni per la cresima c’era Vieni, vieni, spirito d’amore, e la voce di Matteo rendeva il ritornello un pezzo hardcore. Lui lo sapeva, e cercava di sussurrare, ma era impossibile, la sua voce adulta copriva tutte le nostre vocette. Non riuscivamo a trattenerci dal ridere, non per prenderlo in giro, ma per l’effetto rovesciato che si creava, quasi da rito esoterico, tutti in cerchio a invocare un amoroso spirito ribadendo in coro una formula monotona e ripetitiva.
Insomma, noi tutti ridiamo e la catechista Liliana a un certo punto stoppa la musica e ci urla indignata:
“Smettete di ridere pensando all’orgasmo!”
Restammo pietrificati, quasi tutte le guance arrossite, qualcuno sprofondò di qualche centimetro nel pavimento.
Avevo sentito la parola orgasmo, ma nemmeno sapevo concretamente cosa fosse, non ne avevo mai provato uno, ma nemmeno niente che gli andasse vicino, solo di lì a pochi mesi avrei provato la rapidissima sensazione di una puntina di lingua in bocca, alla festa di halloween di Francesco, pochi giorni dopo la cresima. Inoltre orgasmo mi pareva una parola sgraziata, dai suoni duri, mi imbarazzava, non il concetto, ma il suono goffo della parola.
Adesso la catechista Liliana mi rubava il verbo venire, e anche un poco di innocenza.
Per anni non l’ho potuto usare nel sesso e mi sono dovuta inventare nuovi formulari da condividere con chi ci si trovava con me, se non volevo ridere troppo o quantomeno se non volevo mi venisse in mente la catechista Liliana.
Ora che sono passati vent’anni il verbo venire è di nuovo libero e si è arricchito di vari amorosi significati – la mamma che per invitarmi a pranzo la domenica mi scrive su whatsapp soltanto Vieni?, accordarsi con un amore lontano per incontrarsi Vengo io? Vieni tu?, aspettare a casa un amore vicino A che ora vieni oggi?, un’amica che nonostante la stanchezza sceglie di farti compagnia Dai, vengo – ma ogni tanto rido ancora.